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Le stanze di Umberto Eco, con la sua immensa biblioteca in partenza per Bologna, sono state svelate per l’ultima volta, invitando a sbirciare dietro le quinte i metodi di lavoro e le curiose manie di un autore che ha trasformato i libri in essere animati.

Uno dei malintesi che dominano la nozione di biblioteca è che si vada in biblioteca per cercare un libro di cui si conosce il titolo. In verità accade sovente di andare in biblioteca perché si vuole un libro di cui si conosce il titolo, ma la principale funzione della biblioteca, almeno la funzione della biblioteca di casa mia e di qualsiasi amico che possiamo andare a visitare, è di scoprire dei libri di cui non si sospettava l’esistenza, e che tuttavia si scoprono essere di estrema importanza per noi.

                                                               _ Umberto Eco

Quando si comincia a leggere uno scritto di Umberto Eco si direbbe che questo saggista e intellettuale ci stia raccontando non più una storia di un manoscritto, opera in questo caso, di un monaco di nome Adso da Melk, o di una rielaborazione della Storia del Risorgimento con dati e personaggi realmente esistiti, tranne il protagonista, ma di storie di prospettive familiari, addirittura domestiche, create attraverso i corridoi della sua biblioteca, in quei luoghi dove lui stesso abitava e dove la  sua vita si ripeteva da sempre, e sembrava durarvi perpetuamente, come se il tempo, frusciando tra gli oggetti e tra cento cose consunte, trascorreva di stanza in stanza.

Questo è quello che apparso ai nostri occhi, entrando nella dimora milanese dello scrittore, per una visita guidata da parte della figlia Carlotta, grazie alla complicità della casa editrice L’Ippocampo e il suo team, che ci ha introdotto in quel “sancta sanctorum” delle stanze adibite ai libri e alla scrittura, in quell’atto del raccontare in modo affettivo il compiersi della creazione attraverso la dimensione chiusa, esclusiva dove il tempo trascorrendo di stanza in stanza non fugge, ma vi dimora.

I CORRIDOI
ULTIMA STANZA DENOMINATA REDAZIONE

La necessità di appartarsi, di disporre di un luogo dove lavorare e scrivere con tranquillità o addirittura in isolamento fu un’esigenza più volte espressa dallo scrittore e ricercata, ogni volta che gli fu possibile.

Umberto Eco scelse con la moglie Renate Ramge i locali immensi e sbrecciati di un appartamento, che affacciava sulla struttura fortificata del Castello eretto da Francesco Sforza, duca di Milano, intuendo che il suo progetto di Paradiso poteva concretizzarsi. Uno spazio dove i libri dovevano essere ovunque, da quelli della sua infanzia, a quelli di scuola fino al vasto popolo letterario raccolto, girovagando nelle bancarelle di mezza Europa negli anni Cinquanta.

Un Paradiso laborioso, dove lui e la famiglia erano ospiti dei libri, e dove i corridoi lunghissimi contenevano un percorso costellato da una sconfinata parete di libri, organizzata e ri-organizzata come una biblioteca nazionale, ma che doveva essere curiosa, pneumatica, lunatica, magica e semiotica.

Un percorso che sembra partire da unico luogo, angusto, di un’entrata dove coincidono e si mescolano i momenti del vivere quotidiano a quelli della scrittura, e dove via via gli spazi si allargano e insieme ad essi prende corpo l’esigenza di tenerli drasticamente separati, fino a ricomporli di nuovo in un luogo unico.

Da un certo momento della sua vita, intorno alle stanze, Eco sviluppa un suo personalissimo modo di aprirsi alla composizione, dove le stesure dei suoi scritti avvengono attraverso una serie di annotazioni o disegni, che sembrano essere solo un momento, intermedio, della creazione.

Prima, ma è un prima che può intendersi come una scansione temporale fatta di ore oppure di anni, c’è una elaborazione segreta, che arriva fino a noi, attraverso la visione dei tre tavoli grandi, uno cosparso di lettere aperte, scritte in varie lingue e calligrafie, un secondo fatto di raccolte di bozze, che sembrano buttate per caso, ma solo dopo, che l’occhio scruta e si sofferma reverenziale, ci si accorge che era il suo ordine, in quel pazzesco, disordine.

UMBERTO ECO NELLA SUA BIBLIOTECA

Le pareti delle sue stanze sono coperte da immagini che rappresentano il suo percorso professionale fatto di onorificenze, riconoscimenti, lettere o quadri, ma anche foto e oggetti come rappresentazione della sua vita personale, come punti di snodo necessari a disegnare il tracciato di una cosmogonia privata.

Il metodo di lavoro di Eco era strettamente connesso ai supporti materiali adoperati per scrivere: la fisicità del testo assumeva una valenza centrale e a volte decisiva per ricostruire la storia di un’opera all’interno della sua vasta bibliografia.

Si direbbe che, prima di intraprendere la stesura di un romanzo lo scrittore, sceglieva scrupolosamente il suo tipo di ricerca, che si manifesta in fondo al percorso, al visitatore nella postazione di scrittura dove il computer  sta al centro ( l’autore è stato uno dei pionieri nell’uso del computer per scrivere, subito dopo Il Nome della Rosa, 1980)  e lo stesso disordine degli altri tavoli visti diventano una pietra di paragone del suo ordine fatto di pagine appena stampate, libri aperti, e pagine scritte a mano o disegnate, con tanto di didascalia.

Ciò che fa delle carte di Umberto Eco un documento appassionante, anche oltre la ricerca specialistica e filologica, sta nel fatto che esse si presentano sempre come una sorta di ipertesto, dove il luogo converge e si può leggere simultaneamente i vari momenti di cui il testo si nutre e da cui è generato: la memoria, la cronaca storica, la tradizione letteraria, la ricerca linguistica, il vissuto. Nella stessa pagina coesistono poetica e poesia, il processo e il prodotto.

Questa suo immenso Paradiso composto da alcune opere dai costi impossibili, reperibili solo in librerie antiquarie del mondo, sono stati donati per sua volontà alla Biblioteca Braidense di Milano, mentre gli altri 40 mila volumi con gli appunti e le carte del maestro saranno trasferiti nella Biblioteca Moderna presso la Biblioteca Universitaria di Bologna, tra via Zamboni e piazza Puntoni.

Una testimonianza di quanto la scrittura sia stata per Umberto Eco un’esperienza totalizzante, sovrapponibile alla vita stessa, dove a confluire interamente e si trasfigura nel vissuto.

di Alberto Corrado