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Tamara Tenenbaum con “La fine dell’amore” edito da Fandango ci induce ad armarci di un’arma segreta per permettere di superare la nostra fragilità.

“Tu amor no tiene boleto de primera”

Celeste Carballo

Cominciamo con una premessa: prima di essere la più grande scrittrice del nostro tempo, Tamara Tenenbaum, è una donna che dall’aggiudicarsi il primo posto al premio Fictions organizzato dal Ministero della Cultura (Argentina) con il suo libro “Nadie vive tan cerca de nadie”, ha bruciato tutte le tappe dell’emancipazione femminile, in un mondo occupato da maschi.

Lo ha fatto in modo originale, determinato ed efficace.

Mi viene in mente una sua frase dal libro “La fine dell’Amore” pubblicato da Fandango “Scrivere questo libro come è stato più doloroso di quanto mi aspettassi.”

Dietro questa fragilità solo apparente, ci sono anche incertezze, insicurezze, disperazione, sentimenti ricorrenti nelle sue opere e nei suoi umori. Ma su tutto, sulle paure, sul senso del vuoto hanno prevalso sempre la tenacia, il carattere, la precisione e il metodo.

Anche per questo Tamara Tenenbaum è riuscita a darci articoli per quotidiani e riviste, tra cui La Nación, Revista Anfibia, Orsai, Vice, Tierra Adentro, Catapult e Words Without Bordes, un podcast “Deconstruides” e una delle cofondatrici della casa editrice Rosa Iceberg.

Piuttosto, come spesso le succede, preferisce guardare in avanti, al dopo, e, pensando al futuro, non può a fare a meno di essere angustiata, ma pronta a ricominciare a combattere “Ci proveremo”.

E sul momento che stiamo passando riguardo i diritti delle donne, non ha consigli e né soluzioni, ma solo tentativi di idee, di letture ed intuizioni per cercare di non commettere ogni volta nuovi errori.

Non è una pessimista. Anzi crede nel valore vissuto, e che ogni generazione vive al bivio, perché tutti siamo o siamo stati “la generazione della transizione”, di una qualche transizione. Per le donne ve sono state molte: dagli affetti al lavoro. Partendo che ogni donna vive la tensione di due opposti. Da un lato le forme antiche della vita comune: la famiglia tradizionale, i nazionalismi, l’appartenenza a una cultura e una lingua condivise. Dall’altro, quel che viene offerto in alternativa, una specie di individualismo neutralizzato: consumare, competere, avere cura di sé, preservarsi.

Tamara Tenenbaum

I conservatorismi classici insistono ancora, e in modo sempre più violento, sul primo polo come unica ricetta per la felicità: chi non si sposa e non ha figli resterà solo, chi litiga con i propri cari rinuncia alla possibilità di sentirsi a casa da qualche parte. Al di fuori da questi schemi, resta solo l’abbandono.

Un nuovo genere di conservatorismo propone il secondo polo come unica alternativa possibile: emanciparsi vuol dire lavorare, guadagnare, fare sesso molto, consumare. I legami nel nuovo paradigma sono anch’essi pensati come oggetti di consumo: se mi fa sentire bene, lo conservo, se occupa troppo spazio, lo butto.

Tamara Tenenbaum cerca una terza opzione: un’etica dell’alterità che non sia un’etica del sacrificio, un’idea della felicità che sia collettiva senza essere oppressiva. In questo consiste la sorellanza, molto più che in una solidarietà teorica tra identità femminilizzate: consiste nel pensare a comunità scelte, relazioni basate sulla possibilità di condivisione piuttosto che di negoziazione.

Un nuovo modello che si chiama amicizia: un vincolo che si sceglie ma che, una volta scelto, crea anche doveri, ci mette anche in un rapporto di vulnerabilità con gli altri.

E qui mi trova consenziente nell’identificare l’amicizia, intesa in un senso personale, ma anche politico, che può trasformare tutto, anche se non sappiamo ancora esattamente come. Ma certo è un modello, un’idea di avere sempre in testa. Per questo le comunità queer lo sanno: è la forma libera di tribalismo in cui vivono.

Leggere “La fine dell’amore” è una proposta alla resistenza: resistere a scegliere fra strutture ereditate e individualismo selvaggio, e non accettare che siano queste due le uniche opzioni. È logico che tutto faccia paura. Ciononostante, dobbiamo costruire forme di comunità in cui tutti nostri affetti possono coesistere in libertà. Solo cosi possiamo generare condizioni materiali per poter avvicinarci agli altri con un approccio che non sia la competizione. Così possiamo creare le condizioni simboliche per nominare quel che ci violenta e fermarlo prima che sia troppo tardi.

Di Alberto Corrado