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La Fondation Louis Vuitton riunisce 115 opere di Mark Rothko provenienti da importanti collezioni istituzionali e private internazionali. Una mostra che ripercorre l’intera carriera dell’artista, dai suoi primi dipinti all’astrazione.

“Sono diventato un pittore perché volevo elevare la pittura a elemento fondamentale come la musica e la poesia”.

Mark Rothko

Nel cielo grigio con qualche sprazzo di sole, al Bois de Boulogne, sotto le vele di Frank Getty, a Parigi, si fa la fila per varcare l’ingresso della Fondation Louis Vuitton che fino al 2 aprile 2024 diventa il tempio di Mark Rothko. Mentre tutti noi siamo con il fiato sospeso e il cuore in tumulto per il conflitto sulla striscia di Gaza, in molti hanno adottato la frase di Fëdor Dostoevskij, che “la bellezza salverà il mondo”.

Nel guardare le 115 opere di Mark Rothko provenienti da importanti collezioni istituzionali e private internazionali, tra cui la National Gallery of Art di Washington, la famiglia dell’artista e la Tate Gallery di Londra, ci si interroga e si cercano delle risposte a questo ebreo errante e anima baltica, che nel 1913, a soli 10 anni, da Dvinsk, allora impero russo, oggi Daugavplis, Lettonia, approda in America per cambiare la storia dell’arte pittorica.

Il vernissage si apre con le scene intime e i paesaggi urbani, come quelli della metropolitana di New York, che hanno dominato tutta la prima parte della carriera artistica, quando cominciò ad insegnare pittura ai bambini alla Center Academy del Brooklyn Jewish Center, posto che mantenne per vent’anni.

Un inizio di carriera che ebbe da subito riscontri favorevoli sia da parte della critica e dei colleghi, tale che Milton Avery lo convinse del fatto che l’idea di fare una carriera da artista era del tutto possibile. I suoi successi non tardarono ad arrivare quando nel 1933 tenne la sua prima personale al Museum of Art di Portland e poco dopo alla Contemporary Art Gallery di New York.

Tra la fine degli anni Trenta e il 1946 si appassionò nel dipingere miti antichi ed avvicinarsi al surrealismo, attraverso il quale espresse la dimensione tragica della condizione umana della guerra.

Questo sarà il preambolo per la svolta decisiva verso composizioni non oggettive, riducendo le figure all’essenziale, facendole risucchiare dal colore, dalla materia che gli interessava.

Ed ecco la sua prima fase rappresentata dai “Multiformes”, in cui le masse di colore sono sospese tendono a bilanciarsi tra loro fino all’evolversi rapidamente di quelle opere cosiddette “classiche” degli anni Cinquanta, in cui le forme rettangolari si sovrappongono in un ritmo binario o ternario, caratterizzato dai toni di giallo, rosso, ocra, arancio, ma anche di blu e di bianco.

Come un Andrej Rublëv del XX secolo, considerato il più grande pittore russo di icone, Mark Rothko restituisce alla pittura la sua qualità di mezzo, come strumento, e non fine, dipingendo nel 1958, su commissione, una serie di murales per il ristorante Four Seasons progettato da Philip Johnson per il Seagram Building, di cui Ludwig Miles von der Rohne era super visore a New York, in quegli anni.

Alla fine abbandonò questa commessa, quando si accorge del rischio di compiacere ai clienti snob del Four Seasons di Park Avenue, tenendosi l’intera serie.

Undici anni dopo, nel 1969, l’artista donò nove di questi dipinti alla Tate Gallery, distinguendoli dai precedenti per le loro tonalità di rosso intenso e creando una sala delle collezioni dedicata esclusivamente al suo lavoro. Dipinti che si possono ammirare alla mostra di Parigi.

Nel corso degli anni Sessanta, l’artista assunse dei nuovi incarichi, il più importante dei quali fu la cappella commissionata da John e Dominique de Menil a Houston, Texas, inaugurata nel 1971 come Rothko Chapel, meta ancora oggi di pellegrinaggio, dove l’arte diventa la religione e il buio è solo lo specchio scuro in cui avere il coraggio di guardare.

Intanto il mercato dell’arte impazzisce per le sue opere e lo apprezza sempre di più, sebbene l’artista stesso è travolto dai suoi demoni, tale da creare opere dai toni scuri e dai contrasti attenuati.

Un male del vivere che delinea quello che sarà l’epilogo quando si suicida il 25 febbraio 1970, nel suo studio sulla Sessantanovesima strada, nell’Upper East Side di Manhattan, lasciando nella stanza una tela di color rosso in maniera incompiuta. Farà seguito, dopo sei mesi, la scomparsa della seconda moglie Mary Alice, lasciando i figli Kate di diciannove anni e Christopher di soli sei anni e una lunga battaglia legale per la gestione di un’eredità milionaria e di un patrimonio di opere che rischia di finire in mani sbagliate.

Un finale che assomiglia ad un copione cinematografico, tale che la regista Sam Taylor- Johnson, ne sta preparando un adattamento con Russell Crowe, nel ruolo del pittore.

Una delle mostre più attese dell’autunno parigino e molto ampia come altrove non poteva essere, adattata all’incredibile spazio della Fondation Louis Vuitton, una delle pochissime istituzioni in grado di sostenere i costi assicurativi e di trasporto delle opere, calcolando che nel novembre 2021, Christie’s ha battuto all’asta un Rothko per 82,5 milioni di dollari.

Di fatto ogni capitolo della vita di Rothko è rappresentato e valorizzato, che ci permette di entrare in quel suo dialogo senza parole e il suo rifiuto di essere visto come un “colorista”.

Di Alberto Corrado