
Recitando la solitudine di quel mondo arcaico, Alessio Boni con Iliade mette in scena gli ineluttabili capricci della nostra società.
Faccio ammenda. Non avevo mai Alessio Boni in teatro, anche se moltissimi mi avevano decantato l’etica del suo successo, dettata nel riscrivere e mettere in scena metafore dell’inutile ossessione umana per la competizione.
Il Teatro Manzoni di Milano è stata l’occasione giusta, e ne sono stato felice.
Vuol dire che ogni tanto anche nel “mare magnum” di titoli ossessivi, un Teatro riesce ad identificare qualcosa da aggiungere a quella giustizia etica, tralasciando gli ineluttabili capricci del sistema.
“Iliade – Il Gioco degli Dei” per la regia Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Marcello Prayer dovrebbe essere portato nelle scuole.
Nei tempi dei bulli e delle pupe, dei trapper e dei rap, o dell’hip pop aggressivo a colpi di sex, l’adattamento drammaturgico liberamente ispirato all’Iliade di Omero, ci regala il commovente o divertente siparietto del mondo degli dei, che giocano in una lunga e terribile guerra, senza vincitori né vinti.
E proprio in quel mondo arcaico dominato dalla Forza e dal Fato, non è difficile specchiarsi e riconoscere il Nostro, in cui le nostre vite sono dominate dalle paure e dal desiderio di ricchezza.
Un commovente inno a quelle forze distruttive che ci sprofondano nell’irrazionale e rendono possibile ogni guerra.
Vita di chi non ha perso tempo, ma dal tempo è stato perduto, scavalcato e lasciato indietro.
In questo tramonto del Nostro Occidente, “Iliade” di Omero è anche un inno alla vita. Vita che ognuno desideriamo. Vita di chi ha amato spesso senza essere riamato, ha sperato e a volte a tradito.
Vita di chi ha sognato ad occhi aperti, oppure di chi ha incassato sempre schiaffi senza darne.
Vita di chi è stato campione di niente, o di chi ha assaggiato le cattiverie del mondo, accettando le proprie paure e fragilità.
Vita di chi non ha perso tempo, ma dal tempo è stato perduto, scavalcato e lasciato indietro.
Così recita Alessio Boni assieme ai formidabili compagni di viaggio come Haroun Fall, Jun Jchikava, Liliana Massari, Francesco Meoni, Elena Nico e Marcello Prayer per mettere in scena i tanti nessuno che si sentono potenti, ma che scolorano le giornate e le epoche degli stessi mortali.
Raccontano in coro, senza vittimismi la solitudine non dei numeri primi, ma dei numeri cento di cui è piena la nostra cinica impietosa società moderna.
Descrivono con forza di quella espressione teatrale, ma non forzata, le cinquanta sfumature di grigio della nostra esistenza ordinaria, quella di moltitudini senza nome, che amano o che desiderano un altro modello sociale, diverso da quello di ordine morale.
Per questo rileggere Iliade e portare le giovani generazioni a vedere una tragedia greca, serve alle bande di teste vuote con i vestiti firmati, i corpi palestrati e i petti tatuati, a prendere coscienza della propria responsabilità personale e di quel peso della libertà da quei potenti, che sono causa di tutto questo malessere, ma talvolta non hanno colpa di nulla.
Ma in fondo tutti noi siamo eroi greci dominati dal Fato. E faremo bene a ricordacelo.
Di Alberto Corrado